Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti

Articolo 04

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Commento a cura dell’avvocato Angelo Greco.

Ha solo due articoli di distanza dal primo, la Costituzione torna a parlare di lavoro, ma con uno scopo diverso. Se nell’articolo uno, il lavoro veniva considerato nella sua veste oggettiva, per così dire, cioè come unico metro attraverso cui misurare il valore delle persone, ora, nell’articolo quattro, assume invece una dimensione soggettiva. Il lavoro diventa diritto e nello stesso tempo dovere di ogni individuo. Un dovere che abbiamo non solo verso noi stessi ma anche verso tutti quelli che ci stanno attorno: i nostri figli per esempio, perché se non lavoriamo e non portiamo loro il pane commettiamo reato e possiamo essere incriminati; il nostro coniuge, perché secondo la legge tanto il marito quanto la moglie devono contribuire ai bisogni della famiglia in proporzione alle rispettive capacità; verso il nostro datore di lavoro, perché per legge dobbiamo essere fedeli a chici paga, un dovere che si estende nei confronti dell’umanità intera. E difatti, sottolinea l’articolo due ciascuno di noi deve contribuire al progresso, non solo materiale ma anche spirituale della società in cui vive. C’è un legame strettissimo tra lavoro e personalità dell’uomo. Lo stipendio dà da mangiare sia al corpo che allo spirito, in esso non c’è solo la ricompensa per ciò che abbiamo fatto, ma la nostra stessa dignità di uomini, come ha detto Benigni:”la busta paga non è avere, è essere!”.
Il lavoro a cui pensavano i nostri padri costituenti è apolitico, non è quello professato dalla bandiera rossa con la falce e il martello. Si tratta di un’ideale puro e perfetto, ha un significato esistenziale privo di connotazioni partitiche. Ma perché mai i padri costituenti hanno inserito il diritto al lavoro nella prima parte della Costituzione, quella cioè relativa ai principi fondamentali e non invece tra i diritti e i doveri dei cittadini? Sembrerebbe fuori contesto, ma non è così, il senso? della Collocazione a del sublime. È inutile riconoscere all’uomo gli altri diritti se poi non hai il lavoro, chi è disoccupato non possiede nulla, e come morto, sia moralmente, che socialmente. La Costituzione sottolinea ancora una volta la centralità del lavoro come condizione essenziale per garantire una società democratica, non piramidale, non classista. L’unica nobiltà dell’uomo è il suo lavoro, qualsiasi esso sia, anche quello domestico, ha detto la Cassazione. Tant’è che nel 2018 le Sezioni Unite hanno stabilito che, in caso di divorzio, alla donna che ha dedicato la propria vita alla casa e ai figli, sacrificando la propria carriera, è dovuto un assegno di mantenimento proporzionale all’incremento di ricchezza conseguito dall’ex coniuge. A questo punto viene naturale chiedersi. Sì, se è vero che il lavoro è un diritto fondamentale perché non si è mai risolto il problema della disoccupazione? E come è possibile che la stessa pubblica amministrazione, in spregio alle più basilari norme in materia di lavoro, faccia continuo ricorso ai contratti a termine, condannando molti giovani a una vita di precariato? La ragione è ancora una volta nella discrepanza tra i principi e le persone che li applicano, la legge è giusta e nel caso della nostra Costituzione possiamo anche dire quasi perfetta. Non è però altrettanto perfetto l’uomo chiamato ad attuarla, un po come il rapporto tra una religione e i suoi sacerdoti. L’articolo quattro, dunque, così come l’articolo tre relativo al principio di uguaglianza, viene definito una norma programmatica, si limita cioè a fissare un. Un obiettivo a cui lo Stato deve tendere compatibilmente con le proprie risorse, con il bilancio, con le altalenanti crisi del mercato. Dopo aver riconosciuto il diritto al lavoro a tutti i cittadini, l’articolo quattro stabilisce l’impegno della Repubblica a promuovere le condizioni per renderlo effettivo. In che modo? Con il principale strumento che ha in mano uno Stato, la legge. Così nel 1970, dopo ben 22 anni di ritardo dalla nascita della Costituzione, è stato approvato lo statuto dei lavoratori. Sono state poi istituite numerose istituzioni a tutela dei lavoratori, come i centri per l’impiego, l’ispettorato del lavoro, lo stesso inps. E siccome bisogna tutelare non solo chi lavora, ma anche chi non per propria colpa, non ha trovato un’occupazione. Ecco che sono nati una serie di sussidi a beneficio dei poveri e dei disoccupati, come la naspi, che oggi viene erogata a chiunque perda il posto non per proprio volere, come nel caso ad esempio, di licenziamento o di dimissioni per giusta causa. Anche il reddito di cittadinanza, istituto assai controverso e creditato, è nato, sulla carta, con lo scopo di sostituire i vecchi sussidi ai poveri con una misura di sostegno al reddito, di natura tutt’altro che assistenziale. Il problema si poneva e si pone a Monte. Inutile promuovere la ricerca del lavoro, se il lavoro manca non è aumentando le persone che vanno a caccia di funghi, che si può sperare di trovare un porcino a maggio. La seconda parte dell’articolo quattro viene spesso dimenticata, qui viene sancito il dovere di ogni cittadino abile di svolgere un lavoro, lavoro che deve essere comunque sempre commisurato alle sue possibilità fisiche, come l’età e la salute, o alle sue capacità, come la formazione e gli studi universitari. E chiaramente alle sue aspirazioni, come dire, non è tanto importante ciò che fai, l’importante è che fai qualcosa e che si tratti chiaramente di un lavoro lecito e che concorra al progresso della società, sottolinea l’articolo quattro. E allora l’eremita che si isola sul Monte per pregare anche il suo è un lavoro riconosciuto dalla Costituzione, perché il progresso a cui si riferisce l’articolo quattro e da qui deve tendere ogni cittadino, non è solo quello materiale. Ma dice l’articolo quattro, anche il Monaco, chiuso in convento, non produce ricchezza, ma svolge una funzione che, secondo la sua vocazione, serve a migliorare il mondo attorno attraverso il sacrificio. Lo Stato, dunque, non ha alcun potere di interferire nella scelta del lavoro da parte del cittadino. Il lavoro è un diritto, un dovere, ma anche una libertà. Sandro Pertini diceva, Chi ha fame non è libero e chi non ha lavoro ha fame. Se è vero che il lavoro è anche un dovere, cosa rischia? Allora chi se ne sta con le braccia conserte? Non certo delle sanzioni, ma la perdita di alcuni diritti, ad esempio il figlio che ha terminato il ciclo di studi, se non si mette alla ricerca di un lavoro perde il diritto ad essere mantenuto dai genitori. La donna divorziata che, seppur ancora giovane e abile, non si dà da fare per rendersi autonoma economicamente. E non può rivendicare gli alimenti dall’ex marito, il percettore del reddito di cittadinanza che rifiuta un’offerta di lavoro, perde il sussidio statale. Se una persona fa parte di una comunità e da questa riceve benefici e garanzie è necessario che contribuisca a creare le condizioni migliori per risolvere i problemi comuni.

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